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Tu e io generiamo isole

Non voglio essere più

un nervo scoperto

Ma farmi pietra

per non sentire niente

Fino a quando

a terra

nel silenzio con le altre pietre

spezzare la dura corazza

sollevare la testa al sole

e accogliere di nuovo

amore e

abbondanza

 

 

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Sotto l’influsso di Nils Frahm, ore 2:10

Vorrei saper giocare con l’amore
Tornare ad amare come quando ero bambino
E nel silenzio
riconoscere il calore di una voce

Vorrei essere una montagna
per sollevarti e sfiorare le stelle
Mentre petali finissimi
giacciono sul fondo del mare

Ma con le spalle al muro
e senza niente da dare
resta solo un arido deserto
Un pugno di sabbia

Queste semplici parole
e niente più.

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Come un turista nella mia città

Stasera mi muovo come un turista nella mia città

Capita spesso quando passeggio da solo 

con uno zaino sulle spalle

Questo è il mio nuovo quartiere 

Piuttosto tranquillo

C’è perfino tanto posto per parcheggiare

E le finestre indossano freschi omaggi floreali

 

Sul molo, la luce di un lampione

ammaestra le ombre della sera

Mi siedo,  e ascolto il cigolio delle barche sotto la spinta delle onde

E’ buio,

e non distinguo il mare

Le navi là in fondo sono metropoli galleggianti

Iceberg di luci

 

Mi chiedo quale sia il senso

Se davvero esisto

Se sono chi credo io sia

Perché il mare è uno specchio profondo

Come l’esistenza

Un pozzo scuro dove guardarsi dentro 

fino a svanire

 

A che ore finisce lo spettacolo?

Posso decidere io quale sarà la sua fine?

E se… 

 

 

 

 

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Timidamente, riprendo

Fu come un lampo accecante

Come la rapida fuga di un’ombra 

La stessa estensione

La stessa intensità,

l’amore

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Buffocrazia

– Chiariamoci subito, – esordì la sagoma femminile protetta dallo spesso vetro del banco informazioni. – Per ottenere il permesso da lei richiesto si presenti all’ufficio sei, sezione tasse-esentasse e compili il modulo a pacchetti confezionabili che le assicurerà un posto in sala d’attesa. Entri nel laboratorio cinque, interno due, e riceverà una firma sul suo documento. Ha capito tutto?

Sommerso da una tale quantità di informazioni, Mr. Buble afferrò solamente due o tre indicazioni, perciò, come tutti coloro situati dalla parte opposta del banco informazioni (quella del supplichevole richiedente), azzardò un breve riepilogo per accertarsi di aver capito bene. Senza aprir bocca, la sagoma femminea, l’oracolo dell’amministrazione, gli indicò un cartello quattro per quattro affisso al vetro che divide il mondo delle domande da quello delle risposte: “Per le proteste rivolgersi al quinto piano”.

– Io non voglio protestare, – protestò Mr. Buble, ma quel che ottenne fu il solito dito rivolto verso il solito cartello quattro per quattro. Dal fondo della fila fioccarono rumorose lamentele provocate dalla lentezza del servizio. Mr. Buble fu costretto ad allontanarsi e si avviò verso la caleidoscopica scala a chiocciola che conduceva ai piani superiori. Da più di un anno ormai trascinava le terga da un ufficio all’altro col suo stupido permesso da timbrare. Perché tutto era così complicato? Per ottenere anche solo una firma a volte potevano volerci dei mesi. Si doveva prima scovare il dipartimento, la divisione, l’interno e infine l’ufficio desiderato. C’era chi lo definiva “un apparato burocratico snello”. Figurarsi fosse stato obeso! Nessuno però si lamentava. Mai qualcuno che alzasse la voce. La società civile sembrava non poter fare a meno della burocrazia.

Sbilanciato dalla pesante valigetta carica di fogli, Mr. Buble percorse l’infinito corridoio di smistamento fino alla macchinetta segna turno; staccato il numero dalla lingua di foglietti numerati, si sedette in attesa di essere chiamato. Fu annunciato dopo pochi minuti, ma quando fece per alzarsi, una torma di vecchiette canute gli si avvicinò brandendo bastoni da passeggio con fare minaccioso. Erano lì prima di lui e in nessun modo avrebbero permesso che un qualsiasi giovanotto in giacca e cravatta le scavalcasse senza neanche chiedere il permesso. Accerchiato, Mr. Buble estrasse il numero dalla tasca, forte del benessere della ragione, e indicò loro che il suo numero corrispondeva esattamente a quello riportato dal monitor della sala d’attesa. La schiacciante realtà dei fatti rispedì le vecchine al loro posto.

Che indecenza. Che vergogna. Questi giovini d’oggi. Dov’è finito il rispetto?

Mr. Buble oltrepassò vittorioso la porta del piccolo studio.

– Salve, sono Mr. Glacy, – si presentò una voce.

Non era facile individuarne la fonte, poiché l’ufficio era quasi del tutto occupato da sconquassate cassettiere, armadi a muro e vecchi frigoriferi utilizzati come porta documenti. Riconobbe  una mano che si agitava dietro alcune pile di fogli sparse disordinatamente sopra una scrivania.

– Salve… – rispose. – Sono venuto a compilare il modulo a pacchetti confezionabili. Ho bisogno di un timbro sul mio documento d’intestazione.

La mano di Mr. Glacy lo invitò a sedersi.

– Guardi se riesce a trovarmi il modulo S4B fra quei fogli sotto di lei: dovrebbe essercene uno. Lo compili senza lasciare neanche uno spazio in bianco, intesi?

Mr. Buble ficcò il naso sotto la sedia. Vide un piccolo porta fascicoli verde, chiuso da un elastico. Ci mise un po’ a trovare il modulo fra tutte quelle cartacce. Compilatolo, lo consegnò alla mano di Mr. Glacy, il quale, cortesemente ma con un certo distacco, lo informò che il numero di riconoscimento non corrispondeva ai nuovi criteri di ricerca recentemente aggiornati. In sostanza il suo numero andava cambiato con un altro accettato dal nuovo sistema informatico.

– Si rivolga all’ufficio numero otto, quinto piano. Le faranno avere un visto di numerazione. Conosco chi ci lavora. Vedrà, si farà in quattro per convertire il suo numero.

Mr. Buble si trascinò sconsolato verso l’ascensore. Era convinto di avercela fatta e invece lo rispedivano gentilmente in un altro ufficio. Fissò i numeri corrispondenti ai piani illuminarsi uno a uno in senso decrescente. La velocità con cui l’ascensore scendeva verso di lui lo rallegrò un po’. Pregustò il momento in cui le porte si sarebbero spalancate davanti a lui, consentendogli di salire rapidamente ovunque volesse. Dette di nuovo un’occhiata ai numeri, ma questi smisero improvvisamente di illuminarsi. Buble premette più volte il pulsante di chiamata. Niente da fare. L’ascensore, fermatosi all’altezza del terzo piano, non voleva più saperne di scendere: si era bloccato, lo confermò una voce atona proveniente da uno degli altoparlanti disseminati per il corridoio. Dietro Mr. Buble, intanto, si era formata una fila chilometrica di altri come lui in attesa dell’ascensore; ma visto che non arrivava si lanciarono uno dopo l’altro verso la stretta scala a chioccola che conduceva piani alti. La competizione fu inaugurata da un colpo di pistola. I corridori partirono come fulmini, agitando le ventiquattrore ad altezza uomo così da ostacolare gli avversari. Volò qualche ceffone. Non mancarono sgambetti e calci negli stinchi. Mr. Buble, che era fra i favoriti, si tuffò in avanti raggiungendo per primo l’imbocco delle scale, mentre i restanti atleti andarono a incastrarsi fra i due pali di ferro battuto che formavano l’ingresso della scala. Ormai solo, Mr.Buble salì di corsa fino al quinto piano. Giunto davanti alla porta dell’ufficio numero otto, si fermò qualche secondo per riprendere fiato, dopodiché, allentatasi la cravatta, bussò.

– Avanti! – gridò un uomo dalla voce stridula. – L’ascensore era guasto, vero? – domandò l’impiegato sorridendo.

– Si. Non è stato semplice raggiungerla, – rispose Buble in preda all’affanno. Era tutto rosso e continuava a portarsi la mano al petto.

– Ah ah ah! Entri pure, si accomodi, – esclamò l’impiegato ridacchiando. L’uomo, sulla quarantina, basso e dalle guance paffute, sfoggiava un paio di basette ben curate che circondavano il volto rotondo. Portava una sgargiante cravatta bordò e un inequivocabile parrucchino calato sulla fronte larga.

Mr. Buble si chiuse la porta alle spalle e dopo qualche passo poggiò le chiappe su un rozzo sgabello di legno, l’unico pezzo di arredamento dell’ufficio che si avvicinava a una sedia.

– Scusi il disordine. Sono dieci anni che mi prometto di dare una sistemata, ma come vede… con tutto il lavoro che c’è da fare…

Parlava ad alta voce, come se volesse farsi sentire da tutti i colleghi degli uffici accanto.

– Non si preoccupi, – lo rassicurò Mr. Buble impegnato a sistemarsi sullo scomodo sgabello. Tutti quei movimenti dovettero divertire l’impiegato, perché dopo averlo squadrato per un po’ si abbandonò a un’acuta risatina isterica.

– Mi dica, – strillò l’impiegato.

– Giù all’ufficio imposte c’è stato un disguido…

– Disguido? Qual disguido? – trasecolò l’impiegato.

– Non si preoccupi; niente di grave. Un’inezia.

– Un’inezia? Intende dire che il nostro servizio non funziona? insinuò l’impiegato con gli occhi fuori dalle orbite.

– Non volevo dire questo. Devo solo rinnovare il numero di riconoscimento che, a quanto pare, sembra non coincidere con il nuovo registro informatico.

L’impiegato scoppiò in una risata assordante.

– Menomale, pensavo fosse una cosa grave. Ah ah ah!

E ridendo come un pazzo, si portò le mani sugli occhi per asciugarsi le lacrime. Buble notò che aveva un braccio più piccolo dell’altro. Distolse subito lo sguardo per non essere scortese, ma la curiosità lo spinse a guardare di nuovo. Il braccio spuntava dalla manica della camicia e terminava con una manina deforme che contava unicamente tre dita. Doveva aver subito numerose operazioni, perché anch’essa, come l’avambraccio, era percorsa da un’intricata trama di piccole e grandi cicatrici. Aiutandosi col braccio buono, l’impiegato estrasse un fazzoletto dalla tasca del panciotto e si soffiò il naso.

– Numero di riconoscimento? – domandò.

Mr. Buble gli porse il documento che l’impiegato afferrò con la manina, mentre con l’altra batteva i dati al computer. Si meravigliò della velocità con cui Mr. Glacy muoveva la mano sana sulla tastiera. Si chiese quanti tasti battesse al minuto. Non aveva mai visto inserire così tanti dati in così poco tempo, senza mai cadere in errore. Di colpo, la furiosa risata dell’impiegato lo riportò sull’attenti. Rideva come un pazzo, completamente in preda a terribili spasmi. Il parrucchino, scivolatogli indietro sulla nuca, rivelò una testa lucidissima punteggiata da riprovevoli macchie scure simili a dei nei, solo più gonfi e sporgenti.

– Tutto apposto, signore, – riprese Mr. Glacy ancora in balia delle risa. – Le ho appena sostituito il vecchio numero con uno nuovo.

Mr. Buble fece per ringraziarlo, ma l’impiegato si fece scuro in volto e di scatto ritrasse la manina stretta al documento.

– Mancano firma e controfirma del Prefetto, – sibilò. – Le dico come fare. Salga al decimo piano, firmi al suo posto e piroetti fuori dall’ufficio con aria disinvolta. Ma! Visto che lei mi va a genio, – aggiunse, – ho deciso di venirle incontro. Può anche fare a meno della firma del Prefetto, è contento?

– Oh, certo che sono contento, – sorrise Mr. Buble.

Eppure quel volto paonazzo contratto dalle risa non lo rassicurava del tutto. Qualcosa gli suggeriva che non sarebbe stato facile ottenere ciò di cui aveva bisogno.

– Per avere il permesso però deve richiedere il modulo a pacchetti confezionabili presso l’ufficio esentasse, solo dopo aver compilato questo foglio, tenga. Undicesimo piano, prego.

Gli passò un foglio spiegazzato.

– Si muova, per dio. Fra mezz’ora chiude l’ufficio – urlò Mr. Glancy con un tono di voce reso ancora più acuto da un incontenibile bisogno di scoppiare a ridergli in faccia. Buble si alzò lentamente dalla sedia e indietreggiò verso l’uscita, mentre l’impiegato si contorceva sulla sedia trattenendo a stento le risa. Uscito dalla stanza, Buble s’avviò al decimo piano. L’orribile risata di Mr. Glacy echeggiò per i tetri corridoi del Ministero. Fortunatamente la scala a chiocciola era sgombra di gente per cui Buble poté raggiungere l’ufficio senza ulteriori perdite di tempo. Il corridoio del decimo piano, assai più stretto del precedente, contava una ventina di posti a sedere, tutti occupati. Chi dormiva rannicchiato sulla panca, chi poggiava la testa sulla valigetta e chi, invece, riposava accanto ad altri che, come lui, giacevano sdraiati sul pavimento. Dormivano profondamente, con un’espressione serena dipinta sul volto. Buble ebbe l’impressione di trovarsi in un sogno. I tenui raggi di luce che penetravano dalle ampie finestre al lato del corridoio accentuavano l’atmosfera irreale che circondava l’ambiente. In fondo, una porta semichiusa svelava una misteriosa fonte di luce. Mr. Buble si avviò lungo il corridoio evitando di calpestare chi dormiva accasciato a terra. Non era certo sua intenzione svegliare nessuno: sapeva che una volta in piedi lo avrebbero confinato in fondo alla fila. Avanzava con cautela, calcolando il punto esatto del pavimento in cui poggiare la punta delle scarpe. Più di una volta rischiò di calpestare una mano o una ciocca di capelli. Raggiunta la porta, si affacciò per dare un’occhiata. L’impiegata sedeva su una poltrona, piegata in avanti, con la fronte la testa poggiata sulle braccia incrociate. Buble si avvicinò circospetto, senza mai toglierle gli occhi di dosso. Lo colpirono le unghie delle mani: lunghe, lucenti, decorate con un vistosissimo smalto verde pisello. Dormiva con una tale beatitudine che quasi era dispiaciuto di doverla svegliare; ma come poteva tornare a casa a mani vuote dopo tutta quella trafila. Doveva ottenere quei dannati moduli a pacchetti confezionabili, anche a costo di svegliare un’impiegata in servizio. Si schiarì la voce.

La donna non si mosse di un millimetro: nessun cenno di risveglio.

– Mi scusi…

L’impiegata alzò la testa di scatto lanciando un gridolino strozzato.

– Come si permette di entrare senza neanche bussare? Chi è lei? – borbottò con gli occhi ancora inumiditi dal sonno.

– Sono desolato. Non era mia intenzione spaventarla – arrossì.

– Bé, lo ha fatto! Adesso mi dica almeno cosa vuole.

– Dovrei ritirare i moduli a pacchetti confezionabili, non le ruberò troppo tempo.

– Per quello ho bisogno del modulo HCR. Ce l’ha? – domandò l’impiegata che nel frattempo, tirata fuori una limetta dal cassetto, ritoccava distrattamente le lucide unghie delle mani.

Mr. Buble le passò il foglietto ricevuto da Mr. Glacy. L’impiegata inforcò un paio di spesse lenti da vista e, avvicinato il naso al foglio, lesse il contenuto mormorando di tanto in tanto. Buble si asciugò il sudore dalla fronte. Passarono alcuni lunghissimi minuti. Da principio pensò che il sonno l’avesse colta di nuovo, ma poi, quando l’impiegata alzò gli occhi dal foglio squadrandolo attraverso le lenti a fondo di bottiglia, realizzò che era cieca come una talpa.

– E’ mio dovere dirle, – proferì l’impiegata, – che questo foglio poteva tranquillamente riceverlo per posta, compilarlo con tutta calma spaparanzato sul divano e inviarlo via e-mail all’ufficio imposte circoscrizionvallazione numero ventidue. Adesso non può fare altro che passare dall’ufficio catalogazione documentata a mezz’asta e rivolgersi alla signorina Doubleberry. Perché fare tutta questa trafila, mi chiedo?

– Ma… mi è stato detto così… – balbettò Mr. Buble. – Non potevo saperlo. Io… io…

– Meno chiacchiere. Sparisca!

Mr. Buble non riuscì a spiaccicare parola. La stanza cominciò a girare. Per un attimo la vista gli si appannò, colpito da una potente fitta allo stomaco che quasi gli tolse il fiato. L’impiegata infierì senza pietà.

– Se non avesse fatto di testa sua, a quest’ora il suo permesso sarebbe timbrato e controfirmato, invece…

Il volto di Mr. Buble si contrasse in centinaia di moti convulsi. Pensò di strangolare l’impiegata. In questo modo avrebbe risolto rapidamente i suoi problemi. Serrò le labbra e uscì dalla stanza. Era fuori di sé. Adesso doveva scendere giù all’ufficio imposte, chiedere della signorina Doubleberry, dirigersi verso la sala d’attesa e aspettare chissà quanto. Il solo pensiero gli fece ribollire lo stomaco come una pentola di fagioli.

Le decine di corpi addormentati giacevano ancora sul pavimento del corridoio. Si avviò verso la scala a chiocciola, muovendosi con circospezione. Mentre avanzava su quel pericolosissimo pavimento umano, una bruciante sensazione di rabbia lo scosse dalla punta dei piedi a quella dei capelli. Nessuno gli aveva detto che poteva compilare a casa il modulo HCR. Se solo lo avesse saputo, non si sarebbe ritrovato a vagare da un piano all’altro del Ministero come una trottola impazzita. Si arrestò davanti a una delle grandi finestre che illuminavano il corridoio. Doveva controllarsi, respirare. Aveva mantenuto a freno la rabbia per tutta una vita, perché mollare proprio adesso che la situazione richiedeva calma e serenità di spirito? L’istinto, si diceva ogni volta, è tipico dell’animale, non certo dell’uomo, razionale, paziente, temperante. Strinse i pugni, poggiò la valigetta a terra e senza neanche sapere come, lanciò un urlo che scosse i vetri del palazzo. Gridò con quanto fiato aveva in gola, deciso a sfogarsi fino in fondo. Destati da quelle grida disumane, i dormienti si svegliarono sgranando gli occhi, e, una volta in piedi, scatenarono una battaglia a colpi di valigette per accaparrarsi ognuno il proprio turno, come se l’incantesimo che fino a quel momento li aveva costretti a terra si fosse di colpo spezzato.

Nessuno si accorse di Mr. Buble, il quale nel frattempo aveva cessato di urlare. Rimasto immobile per qualche minuto davanti alla finestra, si era allontanato come se niente fosse accaduto, diretto all’ufficio imposte barrato a mezz’asta. In un lampo fu al terzo piano. Spalancò la porta dell’ufficio e, senza badare al segretario andatosi a rimpiattare sotto la scrivania, proruppe nella stanza di Mrs. Doubleberry come una furia. Gli occhi gli lampeggiavano di rabbia. Quando fu di fronte all’impiegata, colpì la scrivania con un pugno e le sbatté il documento in faccia.

– Devo timbrare questo documento d’intestazione previa autorizzazione. Mi serve per ritirare i moduli a pacchetti confezionabili e ottenere un posto di terza classe in sala d’attesa. Che dice? Ce la fa ad aiutarmi?

– Prego? – ribatté Mrs. Doubleberry senza battere ciglio.

Ci fu un lungo minuto di silenzio. Da qualche parte, in uno dei corridoi del ministero, un gruppo di hare krishna recitava lamentose geremiadi a ritmo di campanelli e colpi di om. Mr. Buble riformulò la domanda.

– Potrei ritirare cortesemente i moduli a pacchetti confezionabili?

Mrs. Doubleberry si sistemò la messa in piega con un solenne gesto della mano e guardò Buble dritto negli occhi.

– Per ritirare il modulo a pacchetti deve avere l’HCR. Lei possiede il modulo HCR?

– Certo!

Mr. Buble scaraventò il modulo ormai logoro sulla scrivania. Mrs. Doubleberry lo esaminò da cima a fondo seguendo ogni frase con la punta di un lapis.

– Ha ritirato il cartellino giallo 45B allo sportello Ingoiapersone, vero? – domandò l’impiegata a brucia pelo.

– Senz’altro, – rispose istintivamente Mr.Buble.

In verità ignorava l’esistenza del cartellino giallo 45B, non lo aveva con sé né sapeva cosa fosse o a cosa diavolo servisse. Mrs. Doubleberry sollevò gli occhi e lo squadrò con sospetto. Buble iniziò a sudare.

– Vuole che glielo mostri? – domandò con voce tremante.

– Non c’è bisogno.

La donna allungò la mano verso un porta matite gettato sulla scrivania dal quale estrasse un pesante timbro che si accinse a caricare d’inchiostro. Lo fece ricadere sul modulo con un colpo ben assestato. Buble saltò dallo spavento. Si allentò la cravatta per respirare meglio e raffazzonò un sorriso di circostanza.

L’impiegata si sporse per sfilare i moduli a pacchetti confezionabili da una pila di fogli protetti da fodere di plastica trasparenti. In tutto erano tre. Glieli porse aspettando che l’altro li prendesse. Quando Mr. Buble protese la mano esitante, Mrs. Doubleberry ritrasse la sua, impedendogli di appropriarsene.

– La prossima volta, – lo redarguì, – cerchi di rispettare la fila, intesi?

Tremante, Buble rispose con un cenno del capo. La sua iniziale baldanza si era affievolita non appena costretto a mentire. L’impiegata gli porse ancora una volta i moduli, ma stavolta lasciò che Buble li prendesse e infilasse nella valigetta. Il pensiero di essere quasi alla fine di quell’odissea senza senso lo rasserenò. Percorse il breve tragitto dalla scrivania alla porta dell’ufficio, sicuro che Mrs. Doubleberry lo stesse fissando. Non ebbe il coraggio di voltarsi quando, raggiunta l’uscita, si sentì trafiggere dalle sillabe del suo nome scandite dalla voce tagliente dall’impiegata. Il sangue gli si gelò nelle vene.

– Dove crede di andare? – domandò Doubleberry fra il curioso e l’irritato.

A quel punto Buble si girò. L’impiegata teneva fra le dita il modulo HCR e glielo mostrava con un ghigno stampato sulla faccia.

– Nel suo documento manca la copia dell’attestato comma due ritirabile solo due giorni fa al sesto giro di coda d’ufficio circoscrizionvallazione ‘Moduli confezionabili’. Chi crede di prendere in giro, Buble?

L’impiegata si alzò dalla sedia e con un balzo saltò sulla scrivania puntandogli il dito contro.

– Guardie, prendetelo! Ha tentato di ingannare il Sistema.

La sirena d’emergenza risuonò nella stanza e lungo i corridoi. Da fuori giunsero delle voci concitate. Buble riconobbe lo scalpitio concitato delle guardie provenire dalle scale a chiocciola. Stavano salendo, e a giudicare dai passi sembrava un plotone intero. Davanti a lui, Mrs. Doubleberry lo fissava con occhi fiammeggianti.

– Ti sarebbe piaciuto mandare all’aria l’intero Sistema burocratico, vero? Arrenditi, caro il mio sgancia soldi. Adesso ti tocca tutta la trafila daccapo e al prossimo passo falso non otterrai mai più agevolazioni fiscali per i tuoi inutili stupidi progetti.

Mr. Buble si guardò intorno in cerca di un’uscita.

– Navigherai in un mare di carta straccia, mi hai sentito, pidocchio? Mi hai sentito bene?

La voce di Mrs. Doubleberry si trasformò in una macabra risata. Buble schizzò fuori dall’ufficio proprio mentre le guardie irrompevano nel corridoio, armati di scudi e manganelli trasparenti.

– Eccolo lì! – gridò qualcuno.

Terrorizzato, percorse il corridoio senza mai voltarsi. La paura che si trattasse di un vicolo cieco svanì non appena raggiunse una porta semi chiusa che lasciava intravedere un’ampia stanza poco illuminata. La stanza era vuota. C’era solo una vecchia rampa di scale arrugginite che conduceva al piano superiore. Salì i gradini due a due, senza la più pallida idea di dove lo avrebbero condotto. Gli scudi e i manganelli delle guardie dietro di lui sbattevano qua e là con un gran fracasso. Finite le scale, Buble si ritrovò in un’enorme stanza adibita a magazzino, illuminata dalla fredda luce dei neon. Una sopra l’altra, le scatole di cartone formavano stretti corridoi dalle pareti alte quasi fino al soffitto.

– Hey tu, – lo chiamò qualcuno affacciato alla porta di un gabbiotto poco distante da lui. – Si dico a te: per di qua.

Buble si affrettò a raggiungere il gabbiotto dove un anziano signore, probabilmente il guardiano del magazzino, lo stava aspettando con una vecchia scopa in mano.

– Se sta scappando delle guardie, quella è l’unica uscita.

Gli indicò uno stretto passaggio metallico che serviva a ventilare l’enorme magazzino di scatole. Buble storse la bocca. A occhio e croce sembrava troppo stretto per lui, senza contare che era sporco e aveva un pessimo aspetto. Il vecchio cercò di tranquillizzarlo spiegandogli che puliva il condotto tutte le mattina, e mai una volta, assicurò, vi era rimasto incastrato. Mr. Buble rispose che era un pazzo se credeva di vederlo infilarsi lì dentro, ma quando udì le guardie irrompere nel magazzino cambiò subito idea. Con l’aiuto del vecchietto staccò la grata e infilò la testa nel buco, ma le braccia gli impedirono di proseguire il passaggio, così adesso si trovava culo all’aria, incastrato in quella ridicola posizione. Intanto il vecchietto lo spingeva a colpi di scopa sul di dietro, ridendo e battendosi le mani sulle cosce come un ragazzino stupido. Buble provò a divincolarsi ma il passaggio era troppo stretto. Rischiava di soffocare. Si sentiva come un insetto imprigionato nella vischiosa tela di un ragno. Fra una risata e l’altra, il vecchietto chiamava le guardie a gran voce.

– E’ qui! Ah ah ah ah! E’ qui!

Fu allora che Buble, si arrese. Servì la forza di quattro uomini per sfilarlo dalla ventola d’aerazione. Quando lo misero in piedi, dovette reggersi alle robuste braccia dei suoi inseguitori per non finire a terra come una foglia morta. Una delle guardie, che a giudicare dal modo in cui ingiungeva ordini a destra e a manca doveva essere uno dei superiori, lo squadrò da capo a piedi con l’impressione di dover redarguire un bambino che aveva rubato dei dolci. Buble gli stava davanti, immobile, senza dire una parola, gli occhi fissi sul pavimento. Strappatigli i documenti dalla tasca, la guardia diede una rapida scorsa, poi con aria stanca domandò:

– Ce l’ha il permesso di fuga? Non si può sfuggire al servizio d’ordine senza un permesso di fuga. Doveva reclamarlo all’ufficio emergenze, quarto piano, edificio due.

Buble scosse la testa, esausto. La guardia lo fissò a lungo, indeciso sul da farsi. Poi si rivolse a una delle guardie.

– Va bene, portatelo via.

Mentre lo trascinavano in chissà quale altro ufficio, Mr. Buble si sentì improvvisamente stanco, come intorpidito. La corsa gli aveva succhiato via le ultime forze e adesso desiderava solo un letto su cui sdraiarsi e dormire in santa pace. La testa gli doleva e le orecchie ronzavano dolcemente. Si abbandonò alle braccia delle guardie strette al suo fianco. D’un tratto, ricordò di aver perduto la valigetta da qualche parte. Non importa, sospirò. Non mi serve più. Chiuse gli occhi e lasciò che tutto scorresse. Che tutto scorresse come aveva sempre sognato, almeno per una volta. Senza permessi, né turni, né carte da firmare. Almeno per una volta.

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Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea

Merita attenzione la mostra intitolata Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea curata da Franziska Nori, direttrice CCC Strozzina, e Barbara Dawson a capo della Dublin City Gallery The Hugh Lane, Dublino). La mostra, allestita presso gli spazi espositivi della Strozzina (Firenze) e visitabile fino al 27 gennaio, permette un vero e proprio dialogo fra la poetica del grande artista irlandese e il lavoro di cinque artisti contemporanei intenti a indagare il significato ultimo dell’esistenza umana attraverso il linguaggio creativo dell’arte. Da qui un’intima relazione che coinvolge il corpo dell’artista (l’individuo) e il mondo esterno che lo circonda e stimola. Perché fra tanti artisti proprio Bacon? Basta osservare le sue opere per comprenderne la forte carica esistenziale. Con le sue figure contorte e deformi realizzate con stratificazioni pastose di pastelli e sabbia, Bacon riflette, quadro dopo quadro, una condizione esistenziale senz’altro tormentata. Esaltando principalmente il corpo e la figura umana colta fra le quattro pareti di stanze disadorne, fuori dal tempo, egli erige luoghi (ir)riconoscibili le cui linee si intersecano così da imprigionare l’energia vitale, l’essenza stessa dei personaggi. In Seated figures del 1974, il personaggio al centro della scena è probabilmente George Dyer, compagno di Bacon ritratto ossessivamente fino al 1971, data della sua morte avvenuta nella stanza di un albergo.

Bacon nel suo studio

Bacon nel suo studio

Corpo, memoria e identità. Questi i tre cardini su cui ruotano Bacon e gli artisti contemporanei selezionati. Tramite pittura, installazioni e fotografie, esplorano l’essere umano (e dunque, di riflesso, se stessi) destinato a vivere in un perenne equilibrio fra vita e morte, istinto e rimorso: una pietosa humanitas che anche se connaturata di dolore e sofferenza desidera solo ricevere amore – fine ultimo della sua ricerca esistenziale – inteso come unico sentimento capace di unire e non distruggere.

L’artista svedese Nathalie Djurberg lavora con materia plasmabile animata con la tecnica dello stop motion che le permette di inventare storie provenienti da bizzarre dimensioni temporali. La Djurberg indaga i lati oscuri dei rapporti umani; elabora un immaginario spesso crudo e violento da cui nascono paure, tabù e desideri inconsci. La materia si disgrega nel momento in cui l’artista perde interesse per la storia, come nel caso di Turn into me (2008), dove il corpo diventa materia organica in stato di decomposizione e la morte appare essere ultimo e primo tassello di una vita dall’andamento ciclico. Il romeno Adrian Ghenie compone, invece, tele conturbanti, frutto dello scontro fra ciò che appare e il significato che l’artista vuole comunicare. I luoghi, ameni soltanto all’apparenza, arredati in stile borghese, si animano di figure spettrali o equivoche (The devil). I soggetti perdono le loro sembianze, simboli di stati esistenziali confusi in sfondi pittorici ridotti all’osso, dai colori spalmati con la spatola. Un mirabile lavoro di sottrazione visiva.

C’è spazio anche per New York faces di Annegret Soltau, mosaici fotografici dalla forte presenza simbolica, poiché allegorie della fragilità umana ed emotiva. La Soltau, punto di riferimento per la sperimentazione fotografica in ambito artistico, lavora sull’identità e sull’idea che ognuno ha di sé, scomponendo il proprio ritratto fotografico come in un collage, oppure cucendo un filo nero direttamente sulla foto come nei suoi più famosi photosewings.

NT Faces, Annegret Soltau

NT Faces, Annegret Soltau

E’ un’emozione percorrere il corridoio di fili di lana del giapponese Chiharu Shiota, intitolato In Between. Ideato appositamente per la mostra fiorentina, l’artista, allievo della grande performer Marina Abramovic, utilizza porte anonime ritrovate nei magazzini di Palazzo Strozzi circondandole di un intricata trama di fili come una gigante ragnatela. Le porte, private della loro funzione pratica, diventano oggetti immemori, tracce di una vita passata che non esiste più. Addentrandosi nel corridoio, l’osservatore si ritrova in un non-luogo in cui l’unico tempo che può calcolare è quello del ricordo e della memoria, giacché incapace di afferrare quelle porte distanti e irraggiungibili.

Shiota

Shiota

Interessante anche la sezione fotografia che ritrae lo studio di Bacon al numero 7 di Reece Mews, South Kensington, Londra. Le foto, scattate da Perry Ogden, ci mostrano un atelier sommerso di foto stracciate e tagliuzzate, tele sparse qua e là, modelli, barattoli di tinta, porte usate come tavolozze, ecc… Lo studio è stato poi ereditato dalla Dublin City Gallery di Dublino, protetto come un sito archeologico da cui sono stati ricavati schizzi e dipinti inediti fra cui l’ultima commovente opera realizzata nel 1992, anno della morte dell’autore. Un autoritratto incompiuto, ritrovato sul cavalletto al centro del suo studio. L’opera riflette la condizione esistenziale di Bacon e dell’uomo moderno. La mortalità della vita impressa in poche rapide pennellate su una tela grezza. L’artista punta dunque a una rappresentazione totale dell’esistenza umana da ritrarre nella sua interezza. Una natura caduca, o come scrisse lo stesso Bacon, “vita allo stato bruto”.

Figura e astrazione, corpi riconoscibili e trasfigurati, tensione e isolamento: comuni metafore di vita, ravvisabili nelle opere di tutti questi grandi artisti intenti a instaurare con lo spettatore una riflessione sul vivere contemporaneo. L’esistenza collettiva tracciata dall’arte fatta dall’uomo per l’uomo.

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Kandinskij a Palazzo Blu (Pisa)

Si è aperta il 13 ottobre la mostra Vasilij Kandinskij dalla Russia all’Europa allestita nelle sale di Palazzo Blu a Pisa. L’esposizione, ideata e curata da Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di San Pietroburgo, presenta più di cinquanta opere provenienti dallo stesso Museo di Stato russo e da altri centri museali come il Complex of Tiumen Region, il Surikov Art Museum of Krasnoyarsk e il Centre Pompidou di Parigi. Le opere esposte risalgono al periodo che va dal 1901 al 1921, ovvero quando Kandinskij teorizzò i fondamenti della sua personale concezione di arte astratta. Durante quello storico ventennio, il pittore entrò in contatto con le più originali avanguardie europee e, dopo averne studiato gli aspetti pittorici, fondò a Monaco il movimento artistico Phalanx. Presto il suo astrattismo si sarebbe diffuso in tutto il vecchio continente. La mitologia e le fiabe della tradizione popolare russa influirono con forza sul giovane Kandinskij, il quale decise di trasformarle in argomenti di sperimentazione grafica sottoforma di xilografie: La notte e Poesie senza parole, entrambe del 1903, ne sono un raro esempio. In quest’ultima opera si evince l’interesse del pittore per cavalli e cavalieri che tornerà come un’ossessione in molte sue opere successive. L’equino è per Kandinskij simbolo di liberazione dal passato e dalla tradizione, ma anche del rapporto biunivoco fra arte e artista. Il cavallo, infatti, conduce il cavaliere con forza e velocità, ma è il cavaliere – l’artista – a guidarlo e a tenerlo sotto controllo. Non a caso l’artista battezzerà il suo movimento artistico “Der Blaue Reiter”, firmato anche da Franz Marc, Klee, von Werefkin e Jawlensky. Kandinskij definì l’iconografia equestre come “il talismano romantico dell’eroe galoppante”. Dall’arte del passato recuperò le sacre immagini di San Giorgio e il drago, risalenti al XV secolo. Nel suo San Giorgio II, il pittore rielabora il soggetto in chiave astratta riducendolo a semplici macchie di colore che, se osservate da una certa distanza, assumono le fattezze del cavaliere astato, intento a colpire il drago nella sua classica posizione, sdraiato a terra sul fondo del dipinto. Di notevole interesse anche i quadri naturalistici in stile fauve, dove i colori si rafforzano di un’irruente carica emotiva. Essi si rivelano all’osservatore solo se immerso nella contemplazione della natura. Il tratto, rapido e deciso, è invece quello dei pittori post-impressionisti, ravvisabile nelle figure ambientali e nei riflessi delle superfici acquatiche.

Macchia nera

Macchia nera

Uno dei primi dipinti astratti di Kandinskji risale al 1912: Macchia nera I, in cui compaiono richiami di pittura rupestre. La macchia nera del titolo ricorda, infatti, il tamburo sacro usato dagli sciamani siberiani per comunicare con gli spiriti. L’intero quadro risuona di un misticismo atavico, con il suo contrasto di armonie e disarmonie, teso a simboleggiare quel rapporto spiritualità-pittura che l’artista sovietico scorge fra le linee, nei colori e le forme astratte combinate armoniosamente per comporre un ritratto dell’esistenza umana. Dopo la Grande Guerra, il pittore si avvicinò alla tecnica della pittura su vetro mutuata dall’arte popolare tedesca, definendo le sue opere “Bagatelle”. Accentuò i colori e l’atmosfera fiabesca, come in Composizione o Due ovali del 1916, in cui è possibile cogliere colorismo, figurativismo e ambientazioni oniriche alla Chagall. Immortali le opere Cresta Azzurra (1917), celebre per l’ impetuosa esplosione di forme e colori dinamici, simboli di illuminazioni e profondi moti d’animo, e Composizione su fondo bianco del ’20 che conclude la mostra. Dipinto poco prima di lasciare la neo Russia comunista, quest’opera rappresenta il definitivo passaggio dall’oggettuale concreto al soggettivo astratto.

Cresta azzurra

Cresta azzurra

Macchie di colore in libertà dotate ognuna di un personale significato simbolico: dall’energia dell’arancio, alla folle vitalità del giallo. Il bianco omogeneo è uno sfondo carico di archetipi spirituali e conflitti prospettici. Lo scopo? Superare il figurativismo e instaurare un legame fra arte e forze psichiche. Fra l’anima e l’infinito.

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I Portico Quartet tornano con un disco jazz elettronico

In questo 2012 ricco di uscite discografiche eccellenti e graditi ritorni, all’appello non potevano mancare i Portico Quartet, quartetto londinese capitanato da Jack Wyllie (sax tenore e soprano). Passo dopo passo, il gruppo si è evoluto rapidamente così da non restare prigioniero nell’ambiente jazzistico che ha formato alcuni dei suoi membri. Anzi, a dirla tutta, i Portico Quartet stanno contribuendo notevolmente a un progressivo rinnovamento degli schemi del jazz contemporaneo. Partiti come veri buskers (suonavano lungo la strada prospiciente al National Theatre di Londra), i quattro musicisti britannici si sono poi esibiti sui palchi dei più importanti festival di tutto il mondo, suscitando un sempre più acceso interesse anche in chi non ascolta jazz dalla mattina alla sera.

Li avevamo lasciati con un disco promettente, Isla (2009), registrato negli storici studi di Abbey Road. Un’opera dalle numerose sfumature musicali, accumunate da un particolare gusto esotico. Merito della hang drum del percussionista Nick Mulvey, capace di elaborare campiture ritmiche e sonore, la cui natura sembra provenire da misteriose “isole” lontane. Passano gli anni e quel sound ancora non del tutto personale e ben definito si trasforma adesso in un ambiente sonoro di loop, basi elettroniche e perle jazzistiche, frutto di una meticolosa ricerca formale dettata senz’altro da una maggiore consapevolezza compositiva.

L’album, uscito da poche settimane, s’intitola semplicemente Portico Quartet, come se il gruppo avesse deciso di attestare l’attuale maturità, raggiunta dopo un lungo periodo di gestazione. Alcuni si aspettavano una sintesi dei dischi precedenti, altri un imprescindibile rinnovamento. Ma che la via da esperire fosse quella dell’elettronica sembrava piuttosto scontato. Dove poteva ripiegare un gruppo di musicisti così collaudati? Il risultato è più che interessante. Fin dalle prime note s’intuisce la portata delle composizioni che, ascolto dopo ascolto, assumono la forma di brani oltremodo coinvolgenti. Nelle parti ritmiche o nei tappeti sonori dilagano echi di Four Tet, Flying Lotus, Aphex Twin e Mount Kimbie. Insomma, tutta l’avanguardia e non dell’odierna musica elettronica. Il minimalismo di Isla e Knee Deep in the north sea (2008) ritorna laddove il gruppo decide di eseguire lunghi e dilatati componimenti di natura ambient (per capirci, alla Brian Eno).

Ruins, il secondo brano in scaletta, è il compendio dei nuovi e vecchi ingredienti utilizzati dai Portico Quartet: un originale sincretismo di contaminazioni world music, funk e ambient che guida il jazz verso nuove vie di ricerca, pur continuando a essere presente il serrato dialogo fra improvvisazione e rigore esecutivo tipico del genere. Con Spinner le trame sonore riconoscibili si sfilacciano ulteriormente; la parte ritmica elettronica, mutuata dalla deriva electro degli attuali Radiohead, si fa sempre più serrata e caotica, in progressiva ascensione.

Gli imprevedibili colpi di batteria in Rubidium si alternano a loop che ci riportano ai primi esperimenti jazz di Four Tet. Armonie e dissonanze per una canzone più che convincente. Per Steepless, i Portico Quartet giocano la carta della voce: uno “strumento” estraneo alle loro corde. La cantante svedese Cornelia, sconosciuta ai più, presta il suo personalissimo timbro a favore di un brano meraviglioso, che stupirà chi crede di conoscere il gruppo dopo soli due dischi(da ascoltare anche l’ottimo remix di Cristallin). Ritmo, tappeti di bassi e una bellissima voce bastano per evocare immagini oniriche che ben si raccordano alle sonorità di 4096 colours, alimentate da basi dubstep in un clima votato al minimalismo da raggiungere a tutti i costi. Ai Portico Quartet occorre solo accennare. Pochi piccoli gesti carichi di significato.

Grande ritorno, dunque, che lascia presagire ancora una volta qualcosa di più incisivo per il futuro di una band talentuosa, dotata di ottime idee (frutto di ottimi ascolti) e buon gusto, elemento essenziale di questi tempi per restare impressi in un oceano di ascolti usa e getta.

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The idler wheel… il chilometrico nuovo album di Fiona Apple

Recensione ritardataria. Solo un mese fa mi sono accorto che a giugno di quest’anno era uscito il nuovo disco di Fiona Apple. Gran bella pecca che ho cercato di colmare ascoltando il disco tutto d’un fiato per settimane e settimane, giorno dopo giorno. Non certo per battere qualche record – come invece credo volesse fare la Apple, intitolando il disco con una sola frase di ventitré lettere che, per motivo di spazio, ridurrò a The Idler wheel… Non è un caso a sé. Già nel 1999 pubblicò un disco intitolato When the Pawn Hits the Conflicts He Thinks Oh the Hell With It. La scelta di battezzare i dischi con titoli chilometrici esercita su di me una certa attrazione. La vedo come una sfida al mainstream musicale. Un po’ come quando un gruppo presenta come singolo un brano che dura otto minuti e mezzo, consapevole del fatto che per i produttori sarà un bel problema farlo passare per radio. Insomma, farsi amare infrangendo le regole del mercato. In realtà, credo che i titoli della giovane Apple di New York siano così estesi perché sanno riassumere in un’unica frase tutto il senso dell’opera. Una vera gioia per chi scrive recensioni: spiegare un disco in ventitré dannate parole: la recensione fulminea e lapidaria. Un sogno.

Scherzi a parte, il senso di The Idler wheel… è racchiuso in dieci scorrevoli brani superbamente concepiti. Il primo ascolto può lasciare esterrefatti; ma è dal secondo che le cose cominciano a funzionare per il verso giusto. Scatta così quell’istintivo bisogno di riascoltarlo daccapo ogni volta.

L’elemento vincente è senz’altro la voce di Fiona; non tanto la voce in sé, quanto il modo in cui la utilizza per interpretare ciò che sta cantando. Una volta, lo scrittore-bandito Edward Bunker scrisse che quando leggeva Dostoevskij in piena notte, aveva la sensazione di sentirlo sussurrargli le parole all’orecchio. Ebbene, anche se in questo caso la voce di Fiona si sente eccome, chi l’ascolta con il testo in mano capisce immediatamente il senso di quelle parole grazie alla notevole forza interpretativa del cantato. C’è un punto in Every single night, l’unico singolo estratto, in cui la Apple canta If what I am is what I am / Cuz I does what I does / Then brother get back cuz my breast gonna bust open / The rib is the shell and the heart is the yolk / And I just made a meal for us both to choke on. La sua voce sembra spezzarsi da un momento all’altro, come se la cantante si fosse morsa un labbro o stesse per soffocare. La bocca si contrae in una smorfia di dolore, così che l’ascoltatore possa percepirlo. Non è una cosa da poco.

La sofferenza, l’incapacità di amare, la solitudine, le insicurezze creative sono alcuni dei temi affrontati dal disco. Fiona riesce a vuotare il sacco delle emozioni, anche quelle più struggenti che hanno segnato irrimediabilmente la sua vita (a dodici anni fu vittima di una violenza sessuale, un trauma che non ha mai tenuto nascosto ai giornalisti e spesso affrontato nelle sue canzoni). Mettersi a nudo, si sa, non è facile, ma quando un’artista riesce a esprimersi con estrema sincerità, comunicando onestamente, dicendo le cose come stanno senza usare il facile vocabolario della reticenza, rifugio di tanti musicisti dietro cui nascondersi con frasi pompose o prive di un significato apparente – perché spesso neanche loro sanno di cosa stanno parlando -, ebbene, quando un artista compie questo miracolo dell’arte non può che andare definitivamente a segno, lasciando nell’ascoltatore un leale senso di appagamento e ammirazione – voglio dire, chi non sa apprezzare le persone sincere?

Sebbene in questi ultimi anni Fiona ne abbia passate davvero tante (discussioni infinite con l’etichetta, problemi personali, ecc…), con The idler wheel… firma un disco d’autore in cui convergono attitudini musicali differenti, dal jazz allo swing, dal pop a un rock scarno fatto di rullanti dal sound sabbioso, percussioni tribali, pianoforte e voci, suoni e rumori in loop. Fin dalle prime note s’intuisce lo spirito sperimentale dei brani. Daredavil segue la via straniante delle dissonanze. Voce arrochita sull’onda delle emozioni e un pianoforte che salta da un accordo all’altro, accompagnato da efficaci percussioni del musicista-produttore Charley Drayton. L’autobiografica Jonathan, dedicata al suo precedente fidanzato Jonathan Ames, si apre con un ritmo che sembra uscire da un mix di aspirapolvere e treni a vapore, seguito da una traccia di pianoforte incalzante. Da un registro emotivo all’altro: una distorta partitura dell’anima. Anche la voce trema, facendosi instabile.

Left alone, Perpihery con la sua atmosfera americana anni ’30 e Anything we want divaricano sprazzi di luce, fra spasmodici ritmi percussivi e note di contrabbasso in fuga. Hot knife, il brano che chiude il disco, termina con un selvaggio loop di voci fra cui quella della sorella di Fiona, Amber.

The Idler wheel… è dunque un disco da ascoltare con metodo e passione. Esattamente con quella stessa passione viscerale con cui Fiona l’ha scritto, regalandolo a noi. Mi sembra un buon modo per ricambiare il coraggio di un’artista capace di superare ostacoli e difficoltà, disposta a tutto pur di diffondere brani coraggiosi e necessari per comprendere la sua poetica e, allo stesso tempo, per comprendere noi stessi, specchi dalle sembianze umane. Canzoni scarne, ridotte all’osso per esprimersi al meglio, senza girarci troppo intorno. In fondo l’uomo è fatto di carne e sangue. E io, che ho scoperto questo disco troppo tardi, lo metto su un’altra volta, giusto per farmi perdonare.

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L’eros in bianco e nero

Giorni fa mi arriva un libro a casa. Si intitola “Memorie preziose”, il nuovo libro di Maddalena Lonati, una scrittrice interessante che sto seguendo da un po’ di tempo. Andando in fondo al libro, scopro pubblicata la mia recensione dello scorso anno a proposito del suo libro precedente, “In bianco e nero”, a sua volta pubblicata sul sito 24 letture de Il Sole 24 ore. La cosa mi ha fatto davvero piacere ed è doveroso pubblicare la recensione anche qui sul blog.

Eccola a voi, e seguite Maddalena.

A presto

IN BIANCO E NERO

L’ossessione per l’eros, la sensualità, l’arte e il tempo costituiscono l’architrave di “In bianco e nero”, il nuovo libro di Maddalena Lonati (Robin Edizioni), una raccolta di sette racconti tesa a svelare le diverse facce dell’amore. Anche nelle storie più forti e cariche di una morbosità conturbante, l’autrice punta l’ago della bussola verso un amore possessivo, primordiale che invita i personaggi a sperimentare sulla propria pelle le conseguenze dei loro più reconditi sentimenti. Nonostante il dolore, l’abbandono o la paura di non essere attraenti come un tempo, le sette protagoniste sono donne orgogliose, capaci di rimettersi coraggiosamente in gioco per affermare la loro identità femminile, anche a costo di mettersi contro norme e convenzioni sociali percepite come sbarre di una prigione rigida e castrante. La realtà viene del tutto destrutturata a favore di un’esistenza pericolosamente libera, regolata da istinti e pulsioni vitali. I personaggi acquistano così una sensualità aliena, quasi belluina, come Selene, modella di un fotografo attratto morbosamente dal suo lato animalesco e voluttuoso. Un’eroina immortale dotata di una sessualità intemperante.

Il corpo e i sensi lottano costantemente contro l’inesorabilità del tempo che deturpa e sconvolge la bellezza. L’autrice gioca col corpo femminile. Lo dimagra, lo ingrassa, lo fa a pezzi, descrivendone ogni volta anche gli aspetti più decadenti. Le numerose ellissi temporali permettono di individuare un “prima e dopo” corporeo: il fisico delle protagoniste, un tempo invitante, diventa a poco a poco meno flessuoso e seducente. La Lonati descrive nel dettaglio le loro membra, i loro occhi, le ciocche dei capelli come se ogni aspetto fosse dotato di vita propria, suscitando nel lettore piacevoli turbamenti. In questo modo il tempo segna lo scarto fra giovinezza e vecchiaia. Nel racconto “La dieta”, Susanna, un Dorian Gray al femminile, ossessionata dai quadri del marito che la ritraggono giovane e bella, si convince di poter arrestare il proprio disfacimento fisico. Al contrario del romanzo di Wilde è il dipinto stavolta a ostentare lo splendore della giovinezza mentre il corpo di lei testimonia la corruzione della carne.

Questi racconti andrebbero letti se non altro per i loro rispettivi epiloghi: affascinanti, spesso inaspettati, rafforzati da una notevole suspense. Le descrizioni estremamente dettagliate, non spezzano l’incanto della lettura né l’appesantiscono, ma, in certi casi, sarebbe meglio suggerire piuttosto che esporre, stimolando costantemente l’immaginazione di chi legge. L’arte fa da contrappunto e stimola come un afrodisiaco. Grazie a essa, i personaggi suggellano il loro incontro fisico e mentale. Nel racconto che dà il titolo al libro, i corpi di alcuni ragazzi si uniscono in un quadro astratto di forme e colori: il sesso diventa un’opera d’arte corporea. Un terribile evento improvviso prosciugherà l’unica vera fonte d’ispirazione del protagonista e i colori, ormai svaniti, lasceranno spazio al bianco e al nero. Un omaggio a Schnizler, o al Kubrick di “Eyes wide shut”.

Il vero amore supera le barriere del tempo; scalza l’effimera entelechia della giovinezza e vince l’inesorabilità della vecchiaia. Basta leggere le pagine de “L’opale”, senz’altro uno dei racconti più riusciti. Infranto il gioiello, simbolo di un amore idilliaco, si spezza anche il legame fisico che unisce i due protagonisti. Diventerà un amore eterno, sospeso nel tempo in un’urna di ghiaccio.

“In bianco e nero” è un libro sulla carnalità e sul lato sensibile dell’uomo. Il lettore osserva e contempla in silenzio come coinvolto in un seducente gioco voyeuristico. Ma qui non siamo al cinema, né affacciati a una finestra con un binocolo in mano. Siamo di fronte a un libro avvincente, da leggere poco per volta. Fra le variegate sfumature dell’amore scorgeremo quel bianco e nero, affascinante e pericoloso, insito in ognuno di noi, di cui la vita non deve tingersi mai.

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