Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea

Merita attenzione la mostra intitolata Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea curata da Franziska Nori, direttrice CCC Strozzina, e Barbara Dawson a capo della Dublin City Gallery The Hugh Lane, Dublino). La mostra, allestita presso gli spazi espositivi della Strozzina (Firenze) e visitabile fino al 27 gennaio, permette un vero e proprio dialogo fra la poetica del grande artista irlandese e il lavoro di cinque artisti contemporanei intenti a indagare il significato ultimo dell’esistenza umana attraverso il linguaggio creativo dell’arte. Da qui un’intima relazione che coinvolge il corpo dell’artista (l’individuo) e il mondo esterno che lo circonda e stimola. Perché fra tanti artisti proprio Bacon? Basta osservare le sue opere per comprenderne la forte carica esistenziale. Con le sue figure contorte e deformi realizzate con stratificazioni pastose di pastelli e sabbia, Bacon riflette, quadro dopo quadro, una condizione esistenziale senz’altro tormentata. Esaltando principalmente il corpo e la figura umana colta fra le quattro pareti di stanze disadorne, fuori dal tempo, egli erige luoghi (ir)riconoscibili le cui linee si intersecano così da imprigionare l’energia vitale, l’essenza stessa dei personaggi. In Seated figures del 1974, il personaggio al centro della scena è probabilmente George Dyer, compagno di Bacon ritratto ossessivamente fino al 1971, data della sua morte avvenuta nella stanza di un albergo.

Bacon nel suo studio

Bacon nel suo studio

Corpo, memoria e identità. Questi i tre cardini su cui ruotano Bacon e gli artisti contemporanei selezionati. Tramite pittura, installazioni e fotografie, esplorano l’essere umano (e dunque, di riflesso, se stessi) destinato a vivere in un perenne equilibrio fra vita e morte, istinto e rimorso: una pietosa humanitas che anche se connaturata di dolore e sofferenza desidera solo ricevere amore – fine ultimo della sua ricerca esistenziale – inteso come unico sentimento capace di unire e non distruggere.

L’artista svedese Nathalie Djurberg lavora con materia plasmabile animata con la tecnica dello stop motion che le permette di inventare storie provenienti da bizzarre dimensioni temporali. La Djurberg indaga i lati oscuri dei rapporti umani; elabora un immaginario spesso crudo e violento da cui nascono paure, tabù e desideri inconsci. La materia si disgrega nel momento in cui l’artista perde interesse per la storia, come nel caso di Turn into me (2008), dove il corpo diventa materia organica in stato di decomposizione e la morte appare essere ultimo e primo tassello di una vita dall’andamento ciclico. Il romeno Adrian Ghenie compone, invece, tele conturbanti, frutto dello scontro fra ciò che appare e il significato che l’artista vuole comunicare. I luoghi, ameni soltanto all’apparenza, arredati in stile borghese, si animano di figure spettrali o equivoche (The devil). I soggetti perdono le loro sembianze, simboli di stati esistenziali confusi in sfondi pittorici ridotti all’osso, dai colori spalmati con la spatola. Un mirabile lavoro di sottrazione visiva.

C’è spazio anche per New York faces di Annegret Soltau, mosaici fotografici dalla forte presenza simbolica, poiché allegorie della fragilità umana ed emotiva. La Soltau, punto di riferimento per la sperimentazione fotografica in ambito artistico, lavora sull’identità e sull’idea che ognuno ha di sé, scomponendo il proprio ritratto fotografico come in un collage, oppure cucendo un filo nero direttamente sulla foto come nei suoi più famosi photosewings.

NT Faces, Annegret Soltau

NT Faces, Annegret Soltau

E’ un’emozione percorrere il corridoio di fili di lana del giapponese Chiharu Shiota, intitolato In Between. Ideato appositamente per la mostra fiorentina, l’artista, allievo della grande performer Marina Abramovic, utilizza porte anonime ritrovate nei magazzini di Palazzo Strozzi circondandole di un intricata trama di fili come una gigante ragnatela. Le porte, private della loro funzione pratica, diventano oggetti immemori, tracce di una vita passata che non esiste più. Addentrandosi nel corridoio, l’osservatore si ritrova in un non-luogo in cui l’unico tempo che può calcolare è quello del ricordo e della memoria, giacché incapace di afferrare quelle porte distanti e irraggiungibili.

Shiota

Shiota

Interessante anche la sezione fotografia che ritrae lo studio di Bacon al numero 7 di Reece Mews, South Kensington, Londra. Le foto, scattate da Perry Ogden, ci mostrano un atelier sommerso di foto stracciate e tagliuzzate, tele sparse qua e là, modelli, barattoli di tinta, porte usate come tavolozze, ecc… Lo studio è stato poi ereditato dalla Dublin City Gallery di Dublino, protetto come un sito archeologico da cui sono stati ricavati schizzi e dipinti inediti fra cui l’ultima commovente opera realizzata nel 1992, anno della morte dell’autore. Un autoritratto incompiuto, ritrovato sul cavalletto al centro del suo studio. L’opera riflette la condizione esistenziale di Bacon e dell’uomo moderno. La mortalità della vita impressa in poche rapide pennellate su una tela grezza. L’artista punta dunque a una rappresentazione totale dell’esistenza umana da ritrarre nella sua interezza. Una natura caduca, o come scrisse lo stesso Bacon, “vita allo stato bruto”.

Figura e astrazione, corpi riconoscibili e trasfigurati, tensione e isolamento: comuni metafore di vita, ravvisabili nelle opere di tutti questi grandi artisti intenti a instaurare con lo spettatore una riflessione sul vivere contemporaneo. L’esistenza collettiva tracciata dall’arte fatta dall’uomo per l’uomo.

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