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La montagna di Jack Kerouac e dei Fleet Foxes

L’inverno è alle porte, l’aria più leggera, depurata dal caldo estivo e dall’odore delle foglie bagnate d’acqua piovana. Le vette delle montagne appaiono all’orizzonte. Non sono poi così lontane quando la giornata è bella. Ci osservano in silenzio da migliaia di anni; ci avviciniamo ad esse con timore ed eccitazione e una volta raggiunta faticosamente la cima siamo convinti di aver sostenuto una sfida sovrumana, quella contro la natura.
La stessa sensazione deve averla provata Jack Kerouac quando, con il poeta Gary Snider, scalò il monte Matterhorn, sulla Sierra vicino al Yosemite National Park. Kerouac riporta gli eventi di quel giorno nel libro “I vagabondi del Dharma”, ribattezzando il suo compagno di viaggio con il nome di Japhy Ryder e descrive un significativo periodo della propria vita passata non più sulla strada ma sui monti. Pubblicato nel 1958, il libro rappresenta il seguito ideale di “On the Road” ed è riconosciuto come uno fra i più importanti manifesti della Beat Generation che ha influenzato la cultura giovanile americana degli anni ’60 e ’70. Come tutte le opere di Kerouac anche questa contiene una forte matrice autobiografica. Molte delle vicende qui presenti sono realmente accadute. L’incontro fra il protagonista Smith e Japhy Ryder – in viaggio su un treno merci in stile Woody Guthrie – altro non é che la trasposizione letteraria di quello fra Jack Kerouac e Gary Snider, poeta e cultore di filosofia buddista in cui l’autore/personaggio si riconosce. In un testo dove le esperienze vissute si confondono con quelle romanzate, si ha la sensazione di perdersi in un sogno dai toni realistici, costellato da ambienti inviolati, feste orgiastiche, accese discussioni filosofiche, bevute e profonde riflessioni Zen come

Sono il vuoto, non sono diverso dal vuoto, né il vuoto è diverso da me; in realtà il vuoto sono io.

La meditazione e la spiritualità sono, infatti, i temi cardine su cui poggia l’intera opera che ne evidenzia soprattutto l’aspetto poetico

Prova a meditare sul sentiero, devi solo camminare fissando la strada sotto i piedi senza guardarti intorno e così cadi in trance mentre la terra scorre sotto di te.

Questi due temi caratterizzeranno la prima produzione letteraria dell’autore americano e saranno riutilizzati nel suo “Libro degli Haiku”, in cui Kerouac si cimenta nell’antica forma poetica nata in Giappone, caratterizzata da tre soli versi rispettivamente di cinque, sette e ancora cinque sillabe. Ai suoi brevi componimenti lo scrittore attribuisce il nome di Haiku Pops per attestare un chiaro distacco dalla tradizione. Molti di questi furono scritti durante il suo soggiorno sulla cima del monte Desolazione (Desolation Peak, North Cascade Mountains, Washington), dove, nell’estate del 1956, lavorò come guarda bosco per il Servizio Forestale Americano. Per ben 63 giorni visse in completa solitudine in una piccola e sporca baita di legno posta in cima al monte, dedicandosi alla lettura e alla scrittura di Haiku, anche se buona parte del materiale scritto confluì negli ultimi capitoli dei “Vagabondi del Dharma”

vidi un mare di nuvole color malva omogeneo come un tetto che si estendeva per chilometri, appannando le vallate, con quelle che vengono chiamate nubi basse, e in effetti dalla mia vetta a duemila metri erano tutte parecchio sotto di me

Come un asceta, meditò a lungo, conobbe lo splendore della natura: la sua fu una solitudine corroborante che lo allontanò per un periodo dai veleni della droga e dell’alcool, quello stesso alcool che lo avrebbe ucciso nell’Ottobre del 1969 a soli quarantasette anni.
“I vagabondi del Dharma” è uno dei libri più genuini della produzione di Kerouac; una narrazione avvincente, mai affannosa, anche quando prevalgono slanci lirici di complessa costruzione o le tante riflessioni filosofiche in cui l’autore rielabora il buddismo in chiave laica e del tutto personale. La natura selvaggia resta comunque un’idilliaca fonte d’ispirazione ravvisabile nei testi e nelle atmosfere musicali di molti gruppi americani noti soprattutto ai più giovani, come i Grandaddy o i Fleet Foxes. Dalle loro parole emerge un forte attaccamento alla terra e in particolare alla montagna. I wanna walk up the side of the mountain, ripetono come una filastrocca i Grandaddy; If i had an orchard i’d work till i’m sore, confessano i Fleet Foxes. Questi ultimi vengono da Seattle (Washington), situata al confine con il Canada; una modernissima città che coniuga superbamente civiltà e natura. Circondata da vulcani e montagne, vanta uno dei parchi nazionali più importanti degli Stati Uniti, l’Olympic National Park, caratterizzato perfino da brevi tratti di foresta pluviale. Si dice che passeggiare per i suoi sentieri sia un po’ come attraversare un intricato bosco fatato, dove la fitta bruma trasforma i rami penzolanti in figure minacciose. Per non parlare del fascino del lago di Washington e delle Montagne Rocciose.
Nelle loro canzoni, i Fleet Foxes, barbe lunghe e pesanti giacche a quadri da bravi boscaioli, parlano di tutto questo. Ricordi d’infanzia, epifanie, immagini oniriche impreziosite da suggestive descrizioni di paesaggi montani degni di Kerouac. Non sappiamo se il gruppo abbia mai letto “I vagabondi del Dharma” (forse nessuno gliel’ha mai chiesto), ma leggendone i testi s’intuisce quanto il costante contatto con la natura abbia risvegliato nei suoi componenti una certa sensibilità verso l’ambiente e la poesia. In canzoni come “Ragged Wood” o “Tiger Mountain Peasent Song”, dedicata all’omonima montagna di Washington, vi accorgerete del profondo legame esistenziale che unisce l’uomo alla natura

Trough the forest down to your grave / where the birds wait / and the tall grasses wave

Viaggiare con “I vagabondi del Dharma” nello zaino, e in cuffia una qualsiasi canzone dei Fleet Foxes – magari facendo l’autostop sul ciglio di una strada americana, dove il confine fra asfalto e cielo si confonde, realizzerebbe forse l’utopico sogno di Kerouac di un’America nuova, di giovani viaggiatori “Pazzi Zen” alla ricerca di sé

…un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino, che salgono sulle montagne per pregare, fanno ridere i bambini e rendono allegri i vecchi (…) che vanno in giro scrivendo poesie che per puro caso spuntano nella loro testa senza una ragione al mondo e inoltre essendo gentili nonché con certi strani imprevedibili gesti continuano a elargire visioni di libertà eterna a ognuno e a tutte le creature viventi…

D’altronde cos’è l’utopia se non una strada verso qualcosa che forse neanche esiste, ma che intanto permette di fare ogni volta un piccolo passo in avanti?

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