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La caffettiera ha fischiato…

Uno dei momenti più rilassanti della mia giornata inizia dopo pranzo e termina venti minuti dopo. Mi avvicino alla credenza e afferro un alto recipiente di plastica dalla forma circolare; rimosso uno dei due tappi di plastica morbida fissati alle sue estremità, appoggio il recipiente sulla parte della caffettiera adibita a contenere il caffè. Il suo nome è Pablito, il mio originale contenitore o dosatore di caffè che, oltre a conservarne la freschezza, permette di riempire la valvola della caffettiera senza dover ricorrere al cucchiaino. Vi spiego come. Una volta sistemato Pablito sulla caffettiera, e ruotata una manopola a forma di chiave, si aziona un simpatico meccanismo dentato che solleva una bacinella rotante posta all’interno del contenitore, la cui funzione è quella di raccogliere il caffè e catapultarlo verso il basso facendolo precipitare all’interno della valvola di contenimento. In pratica è lo stesso meccanismo della famosa paletta dei gelatai ideata per raccogliere i gusti e disporli rapidamente sul cono. Geniale. Ma se Pablito si aggiudica il titolo di “miglior invenzione originale” nell’ambito della caffetteria come disciplina, la Moka resta senz’altro la più rivoluzionaria.

Fu brevettata nel 1933 dall’artigiano piemontese Alfonso Bialetti, classe 1888. Costui perfezionò la già nota “tecnica in fusione di conchiglia” che gli permise di costruire il prototipo. Da allora sono state prodotte migliaia di Moke e le sue vendite non hanno mai subito significativi collassi, neanche quando tentarono di soppiantarla immettendo sul mercato caffettiere elettriche o a cialde, simili a quelle utilizzate nei bistrot. Dalla tipica forma ottagonale, direi “cubista” per il suo aspetto multi sfaccettato simile a un oggetto picassiano, la nuova caffettiera in alluminio e dal manico in bachelite, riscosse subito un sorprendente successo e soppiantò la storica caffettiera napoletana, affascinante ma di difficile utilizzo. La Moka, al contrario della napoletana, non prevede il suo capovolgimento per far scendere il caffè, ma lo fa “salire” grazie a un sistema complesso quanto banale – la genialità risiede ancora una volta nelle cose semplici. Vado a chiarirne l’uso e la preparazione. Si prende il bollitore, si riempie d’acqua fino alla valvola di contenimento per poi inserirvi il simpatico filtro a imbuto, dopodiché, aiutati da un cucchiaio o, come nel mio caso dal fedele Pablito, rovesciamo nel filtro il caffè, pareggiandolo all’altezza del bordo. Infine, avvitiamo il raccoglitore in cui la bevanda andrà a depositarsi per mezzo di un secondo filtro, il “camino”. Si raccomanda di non stringere troppo onde evitare una precoce usura della guarnizione di gomma atta all’avvitamento. Si tratta, dunque, di un banale gioco a incastri come quello usato dai bambini per imparare a distinguere le forme geometriche – l’infante ha tanti stampini e un piano con altrettanti buchi su cui inserire il giusto stampino: quello a forma di stella andrà nel ricovero fatto a stella, quello a rettangolo in quello fatto a rettangolo e via dicendo. Il piccino dovrà trovare la giusta corrispondenza fra la forma e il relativo incastro. Ebbene, la caffettiera ha lo stesso aspetto ludico ed è a mio avviso un elemento da non sottovalutare se si vuole conoscere il segreto del suo successo commerciale.

Una volta terminata la fase di preparazione, diamo stura al fuoco (da tenere rigorosamente basso) così da avviare lo strabiliante procedimento. L’acqua, riscaldatasi nel bollitore, grazie all’inevitabile pressione del vapore, scende verso il basso e risale lungo la caffettiera: prima incontrando il caffè attraverso il filtro a imbuto poi convogliando nel raccoglitore. La durata del processo può variare dai tre ai quattro minuti fino a un massimo di cinque. A questo punto il caffè è pronto per essere sottoposto alla fatidica “prova assaggio”, ma qui sfociamo nell’ampio campo del soggettivismo e c’è il rischio di perdersi in un ginepraio di assurde scuole di pensiero, tipo: troppo acquoso, troppo forte, basso, alto, ristretto, con una zolletta, con due zollette, nero, sedimentoso… insomma, ognuno lo prende come cazzo gli pare.
Come la pipa, la caffettiera migliora con l’uso. Il sottile strato di caffè che col tempo si forma sulle pareti del raccoglitore attenua il contatto fra la bevanda e l’alluminio di cui la Moka è costituita. Se così non fosse, il caffè avrebbe un lieve sapore metallico, il che lo renderebbe facile al rigetto. Se proprio desiderate pulirla perché ciò significa soddisfare le vostre più convulse fissazioni allora basta farlo con un poco d’acqua calda e nulla più.

Giusto qualche accenno storico. Come molti già sapranno, il nome Moka deriva da una particolare località dello Yemen, Mokha, dove viene tuttora prodotta la speciale qualità arabica. Ma fu in Brasile che nel corso dell’800, la produzione di caffè si rivelò assai lucrosa per un ristretto nucleo di proprietari terrieri che, arricchitisi, aumentarono notevolmente il loro potere politico sull’intera zona. Non voglio dilungarmi sulla storia del caffè che nel corso dei secoli ha subito un susseguirsi di speculazioni economiche, sfruttamenti e sanguinose lotte per il controllo delle zone di produzione da parte di occidentali solo all’apparenza dabbene. Mi limito a definire il caffè come una delle bevande più antiche e utilizzate al mondo insieme al tè (e non è un caso, essendo entrambe sostanze eccitanti). Aggiungo che, se preso una tantum, non può far altro che bene, e che, una volta fatto scivolare nella tazzina, è consigliabile godersi ciò che Pennac definisce il melodioso girotondo del cucchiaino sui bordi della porcellana. Per finire, la Moka è da annoverare fra le invenzioni umane più geniali. Un oggetto utile, artistico perfino ricreativo al momento del suo assemblaggio. Il mio solo rammarico sta nell’ignorare il nome dell’inventore di Pablito. Perciò, questo breve e velleitario articoletto è a lui dedicato. Se voi ne siete a conoscenza, fate un fischio… come la caffettiera.

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